Uno o tre cervelli?

Uno o tre cervelli?

L’eredità dell’evoluzione nelle nostre risposte comportamentali
Le neuroscienze entrano nel colloquio di psicoterapia nella misura in cui permettono al clinico di descrivere
in modo più affidabile i processi mentali che emergono dal sostrato cerebrale e darne quindi una
spiegazione che sia anatomicamente ed evoluzionisticamente fondata.
Una definizione supportata dalle neuroscienze vede la mente come una proprietà che emerge dal sostrato
anatomico cerebrale e che ha la capacità di auto organizzarsi plasmando il movimento dei flussi di energia e
di informazioni nel nostro corpo. La mente e il corpo sono in reciproca interdipendenza: la mente agisce sul
corpo, sulle relazioni e sull’ambiente, elaborando le informazioni e modulando i flussi di energia che da essi
provengono e a sua volta è modificata da tali fattori.
Questa caratteristica della mente non è esclusivamente umana, infatti diverse specie animali sono capaci di
monitorare e modificare gli stati interni e l’ambiente al fine della sopravvivenza; ciò che invece la mente
umana è esclusivamente capace di fare è di integrare gli stimoli interni ed esterni al corpo in sistemi
complessi di informazioni. Questo da una parte ci ha permesso di sviluppare la cultura e di tramandarla.
Le neuroscienze ci dicono che la funzione di integrazione è svolta dalla corteccia prefrontale, che ha il
compito di collegare tre aree del cervello molto diverse: la neocorteccia, l’area limbica e il tronco encefalico;
la corteccia prefrontale svolge quindi un’importante funzione regolativa che modula l’input proveniente
dalle aree inferiori (tronco encefalico e area limbica) e da quelle superiori (neocorteccia) del cervello. La
corteccia prefrontale da una parte ci permette di mantenere il controllo quando siamo arrabbiati e dall’altra
ci fa togliere la mano dal fuoco senza pensarci troppo.


Le aree più basse del cervello, il tronco encefalico o cervello rettiliano sono le aree più primitive, presenti in
diverse specie animali, e hanno la funzione di monitorare e modificare le funzioni base dell’organismo
(frequenza cardiaca e respirazione) e gli stimoli ambientali (temperatura, cibo ed eventuali predatori o
opportunità riproduttive). Quest’area è sede delle risposte comportamentali automatiche al di fuori della
consapevolezza (es. attacco/fuga, immobilizzazione, finta morte).
L’area limbica, sviluppatasi in un momento successivo dell’evoluzione e quindi presente solo nei mammiferi,
comprende le regioni dell’ippocampo, dell’ipotalamo e dell’amigdala ed è situata nella parte centrale di
entrambi gli emisferi, anche se ci sono delle differenze funzionali tra la parte limbica dell’emisfero destro e
quella dell’emisfero sinistro. Quest’area del cervello, essendo inoltre sede centrale del sistema endocrino,
attraverso l’ipotalamo permette la regolazione e il coordinamento di numerose funzioni dell’organismo,
delle emozioni e dei sistemi motivazionali interpersonali.
La neocorteccia si è sviluppata in tempi recenti e appartiene in maniera esclusiva ai mammiferi
maggiormente evoluti (primati e umani). La neocorteccia si trova al di sopra delle regioni limbiche e del
tronco cerebrale e ne permette il collegamento, creando gruppi di neuroni che si attivano insieme, ma in
modo differente da individuo a individuo, a prescindere dagli stimoli ambientali. Tale area dota l’uomo della
possibilità di rappresentazione svincolata dalla realtà esterna, si apre quindi all’uomo la possibilità di
formulare concetti che vanno oltre la realtà fisica, di pensare e immaginare in maniera astratta, comporre
poesie, pianificare il futuro e ragionare sulla morte.
Questa prospettiva ci fa portatori di memorie antiche, ereditate in milioni di anni di evoluzione; quello che
nel passato ha funzionato ai fini della sopravvivenza è stato conservato e tramandato. Ma ciò che si è
sviluppato dopo, gli strumenti più fini utili all’adattamento, la socialità e la cultura, non hanno sostituito le
strutture precedenti e nemmeno sono modificazioni di esse: nel corso dell’evoluzione si sono aggiunte
nuove strutture con nuove funzioni. Le sfide che questi cervelli hanno però dovuto fronteggiare nel corso
dell’evoluzione sono molto diverse, di conseguenza diversi sono gli obiettivi verso cui puntano e gli
strumenti che utilizzano per raggiungerli.

Il tronco encefalico o cervello rettiliano
Il nostro cervello più antico ci ha insegnato a sopravvivere, ad adattarci al contesto e a riprodurci; per fare
ciò ha dotato gli esseri viventi che lo possiedono (ovipari e mammiferi) della predisposizione
all’esplorazione per la ricerca di una tana, un luogo sicuro dove sentirsi protetti, alla predazione, che
assicura il nutrimento utile alla sopravvivenza e all’attacco o alla fuga di fronte ai predatori. Disposizioni
fondamentali alla sopravvivenza sono anche l’accoppiamento, la cova e la difesa della prole.
Un animale che agisce mediante il cervello rettiliano monitora l’ambiente al fine di cogliere potenziali prede,
potenziali minacce o occasioni riproduttive nell’ambiente circostante e sulla base di tali input attiva degli
schemi comportamentali tramandati geneticamente che si sono rivelati utili nel corso dell’esperienza. Di
fronte ad una preda scatta subito la strategia più efficace, variabile a seconda della specie, in base agli
strumenti di cui l’evoluzione l’ha dotata per cacciare; mentre di fronte ad un predatore si innesca il sistema
di difesa che effettua una valutazione il cui esito sarà o l’attacco o la fuga. L’attacco e la fuga sono
considerate difese attive, ma le cose si complicano se le possibilità di fuga non sono praticabili e ci si trova
“all’angolo”, le difese che entrano in campo di fronte a minacce percepite come troppo forti ma da cui non si
può fuggire sono il freezing o immobilizzazione e la finta morte. Tali reazioni sfuggono al controllo del
soggetto e non sono messe in campo volontariamente ma hanno dei significati ben precisi: la prima,
immobilizzarsi di fronte ad un predatore, favorisce le probabilità di non essere visti, la seconda, fingersi
morti, invece riduce le probabilità di essere predati in quanto solo poche specie si cibano di carcasse.
Tali risposte comportamentali sono fondamentali in contesti ambientali in cui si possono incontrare
predatori da sconfiggere o da cui fuggire e garantiscono spesso la sopravvivenza; tuttavia anche se l’essere
umano moderno non si trova ad abitare un ambiente simile e a fronteggiare quotidianamente minacce di
tale portata per la sopravvivenza, porta come bagaglio evolutivo tali disposizioni, che si attivano di fronte a
situazioni estreme in cui le possibilità di sopportazione del soggetto arrivano al limite. Succede di svenire di
fronte ad emozioni o esperienze forti, che eccedono la nostra possibilità di tollerarle; capita anche di
rimanere paralizzati dalla paura o in seguito ad altre emozioni. Ecco che si ripropongono in noi modalità
antiche, di cui l’evoluzione ci ha dotati per raggiungere il suo scopo fondamentale: la sopravvivenza.

Il cervello limbico
Il cervello limbico invece, essendosi sviluppato in momenti successivi dell’evoluzione, ha dotato i mammiferi
di strumenti specifici per raggiungere l’obiettivo, “più evoluto”, di mettersi in relazione con i propri
conspecifici e costruire con loro legami che stabiliscano posizioni sociali. Questa disposizione emerge
sicuramente da condizioni di maggior sicurezza per la specie che si trova meno impegnata a sopravvivere,
ma anche dal vantaggio evolutivo che deriva dal collaborare tra conspecifici per raggiungere un obiettivo
comune (cacciare in branco e difendere il territorio).
Al fine di raggiungere tale l’obiettivo, l’evoluzione ha messo a disposizione dei mammiferi dei sistemi che
organizzano la spinta motivazionale in schemi comportamentali condivisibili. I comportamenti osservabili di
un soggetto possono essere considerati come sorretti da spinte motivazionali innate orientate ad un
obiettivo relazionale. Gli obiettivi relazionali possono essere:
La spinta a richiedere cure ad un conspecifico riconosciuto come più forte e in posizione gerarchica
superiore, è ciò che vediamo mettere in campo dai bambini con il pianto e dai cuccioli di diverse specie
verso le madri. Dall’altra parte i segnali mandati con l’obiettivo di ricevere cure saranno recepiti dal
conspecifico ed attiveranno in lui la disposizione ad accudire il più debole.
Un’altra spinta motivazionale è quella della cooperazione verso un obiettivo comune, questo accade
quando le risorse in possesso di due o più conspecifici vengono messe a disposizione per un bene superiore
riconosciuto da tutti, per l’uomo tale disposizione è stata fondamentale nel corso dell’evoluzione e continua
ad esserlo tutt’ora, anche se di difficile applicazione. Ciò che più spesso tende a prendere il sopravvento è
un’altra disposizione che mira non alla condivisione delle risorse ma ad un accesso esclusivo ad esse da
parte di un soggetto ritenuto più forte. Tale disposizione dispone per eccellenza gli aggregati di individui a
stabilire posizioni sociali di dominanza e sottomissione, ma a differenza di quanto si è detto prima per il
cervello rettiliano, qui la lotta non è per la sopravvivenza e quindi l’obiettivo non è quello di uccidere l’altro
ma di dominarlo. Per far ciò l’evoluzione ha dotato i mammiferi del segnale di resa per comunicare al
conspecifico che ci sta attaccando che riconosciamo la sua superiorità (il cane che si mette a pancia in su, le
nostre mani alzate o il capo chinato).
Un’ultima spinta motivazione di cui l’evoluzione ha dotato i mammiferi è la sessualità sociale, in questo caso
il comportamento non è orientato all’accoppiamento per l’esclusiva finalità riproduttiva, ma a costruire
legami sociali (monogami o meno) finalizzati all’accoppiamento, quindi il corteggiamento che dispone a
mostrare le proprie caratteristiche genetiche al fine di essere scelti dal conspecifico per la riproduzione e
l’accudimento della prole in modo congiunto.

La neocorteccia
Infine, solo l’essere umano, che ha raggiunto stadi evolutivi più avanzati rispetto alle altre specie, ha
sviluppato delle strutture cerebrali molto complesse che permettono di raggiungere obiettivi evoluzionistici
ancora più alti. Sono questi quelli di dare senso e significato a sé, agli altri, al mondo, alla vita e agli eventi
che accadono e di condividere tale significato con i conspecifici. Non sarebbe stato possibile per l’uomo
sviluppare tali capacità senza il possesso del linguaggio e della narrazione, del senso del tempo, del senso di
causalità degli eventi e della coscienza di sé e degli altri (identità). Su queste dotazioni innate si è venuta a
sviluppare la cultura, nelle sue diverse forme a seconda del contesto e del momento storico. La cultura si
appoggia proprio su un sistema si significati condivisi utilizzati per dare senso al mondo, significati che ci
vengono proposti e tramandati alla nascita e quindi diventano parte di noi in maniera quasi innata,
modificando le strutture celebrali, creando gruppi di neuroni, anche distanti, che si attivano insieme di
fronte a certi stimoli e questo accade in maniera unica da individuo a individuo.
Al di la della cultura, lo sviluppo di tali aree cerebrali ha permesso all’uomo di sviluppare le funzioni
superiori di empatia, moralità, capacità di lettura degli stati interni propri e altrui e il ragionamento astratto
e sulla morte. Non solo, insieme a queste caratteristiche l’uomo ha sviluppato anche la possibilità di
sconnettere il significato del messaggio dal suo significante (il sorriso maligno o ironico), di creare una
molteplicità di significati sullo stesso segno e di mistificare intenzionalmente certi significati.
Il rapporto di integrazione fra queste tre diverse aree del cervello è complicato e spesso sfugge al controllo
consapevole. Tale funzionamento vede protagonista la neocorteccia con le sue funzioni superiori che
mediante la consapevolezza archivia l’esperienza dandole senso e signifiato, questo avviene in stretta
connessione con le aree limbiche che aggiungono il tono emotivo all’esperienza e danno l’obiettivo
relazionale da perseguire in quel momento; in sottofondo il cervello rettiliano monitora potenziali minacce
per la sopravvivenza.
In certi casi però questa perfetta integrazione si deve rompere e a prevalere sarà una sola struttura
cerebrale, con le risposte comportamentali che ha appreso e orientandosi verso gli obiettivi evolutivi per cui
è predisposta. Questo è il caso di quando la paura dell’esame crea il vuoto mentale, la neocorteccia che si
porta dietro tutte le informazioni apprese con lo studio, in quel momento è fuori uso a causa di una
massiccia attivazione limbica sulla motivazione agonistica di non fare brutta figura. In altri casi può essere il
nostro cervello più antico a prevalere e prendere il controllo delle risposte comportamentali, spesso
salvandoci la vita; ad esempio se rischiamo di essere investiti facciamo in automatico il passo più lungo per
raggiungere il marciapiede e di fronte ad una tigre da cui non possiamo fuggire rimarremmo immobilizzati o
ci fingeremmo morti. Il problema è quando tali risposte comportamentali si attivano in circostanze in cui
non è richiesto dalla situazione perché non oggettivamente minacciosa per l’incolumità dell’individuo.

Bibliografia

  • Daniel J. Siegel“Mappe per la mente. Guida alla neurobiologia interpersonale.” Raffaello Cortina Editore, 2014, 10-1/10-6, 12-1/12-3, 13-1/13-4, 14-1/14-5